La Macchina di Turing e i limiti della calcolabilità

Il secondo della lista di ventitré problemi matematici elencati da Hilbert nel 1900, che avrebbero dovuto, come in effetti è stato, impegnare i matematici del XX secolo, è l’Entscheidungsproblem. Dato un sistema formale sufficientemente espressivo da contenere l’aritmetica, per esempio la logica del prim’ordine, e data una formula arbitrariamente complessa, espressa nei termini di tale logica, Hilbert domandava l’esistenza di una “procedura effettiva”, un algoritmo, in grado di decidere se la suddetta formula fosse o meno dimostrabile a partire dagli assiomi della logica. Risposta negativa al quesito venne da Church e Turing che, l’uno indipendentemente dall’altro, nel 1936, pubblicarono i lavori che stabilirono i limiti, universalmente accettati, della calcolabilità.

Fra gli anni ‘30 e ‘40 del secolo scorso vide la luce la maggior parte delle caratterizzazioni formali di ciò che è calcolabile: quella di Turing, basata sul modello di macchina omonimo, quella di Church, basata sul λ-calcolo, quella di Post, basata sui sistemi combinatori, e altri ancora. La semplicità delle assunzioni di base su cui tali formalismi si fondano, unitamente alla semplicità delle operazioni elementari che essi mettono a disposizione, condussero, i vari autori, a formulare la congettura secondo cui la loro nozione di calcolabilità fosse la più generale possibile: non esistono procedimenti di calcolo inesprimibili nei loro formalismi. Tale congettura, nota oggi col nome di tesi di Church-Turing, peraltro indimostrabile, data l’impossibilità di dimostrare l’equivalenza di tutti i possibili modelli di calcolo, è comunque ritenuta oggi universalmente valida.

La Macchina di Turing, in particolare, costituisce il modello di calcolo di riferimento sia nell’ambito della calcolabilità che in quello della complessità computazionale (che si occupa, invece, di studiare le risorse, in termini di tempo e spazio, necessarie per eseguire un algoritmo). È opportuno notare, come tra l’altro sottolineato da Vardi in [1], che quando il logico inglese Alan Turing introdusse tale modello di calcolo egli non si poneva l’obiettivo di formalizzare la nozione di algoritmo, problema tra l’altro ancora aperto, ma di formalizzare il concetto di calcolo. Nella fattispecie, l’intento di Turing era esprimere la capacità di operare calcoli, tipicamente umana, attraverso i passi elementari di un dispositivo di calcolo meccanico. Lo scopo, prefissato in un periodo in cui i calcolatori elettronici non avevano ancora fatto la propria comparsa, era stabilire l’esistenza di un algoritmo capace di dimostrare teoremi nell’ambito dell’aritmetica (Entscheidungsproblem). Come vedremo, tale problema, che è riconducibile al problema di stabilire l’esistenza di un algoritmo capace di determinare se una Macchina di Turing termina o meno la propria computazione su di un dato input, è indecidibile. In altre parole, un algoritmo siffatto è irrealizzabile.

La Macchina di Turing
Nella sua versione classica, apparsa per la prima volta nel 1936 in [2], una Macchina di Turing (MT) si configura come un dispositivo dotato di testina operante su di un nastro potenzialmente infinito. Tale nastro è diviso in celle ciascuna contenente un simbolo appartenente a un alfabeto finito ampliato con il carattere speciale blank, che rappresenta la situazione di cella vuota. La testina, con cui la macchina opera sul nastro, può scorrere su di esso in entrambe le direzioni e, su ogni cella, può leggere o scrivere simboli appartenenti all’alfabeto. In un dato istante, la macchina si trova in uno stato, appartenente a un insieme finito di stati, caratterizzato dalla configurazione corrente di simboli scritti sul nastro e dalla posizione corrente della testina. Il meccanismo che fa evolvere la computazione della macchina è una funzione di transizione che, dato uno stato, e dato il simbolo sulla cella del nastro su cui è correntemente posizionata la testina, determina la transizione in un nuovo stato, congiuntamente alla scrittura di un nuovo simbolo sulla cella e, eventualmente, allo spostamento della testina di una cella a destra o a sinistra. La figura sottostante, tratta da [3], illustra un passo computazionale di una Macchina di Turing la cui funzione di transizione, a partire dallo stato q3 e dalla lettura del simbolo b nella cella puntata dalla testina, determina la transizione nello stato q4, la scrittura del simbolo a nella cella correntemente puntata e lo spostamento della testina a destra. Come evidenziato dallo stesso Turing, tale modello di calcolo è in grado di rappresentare il ragionamento tipicamente umano seguito per fare calcoli: risultati parziali vengono “annotati”, quindi, grazie al carattere speciale blank, cancellati per fare posto al risultato finale.

Il modello di macchina presentato, poiché estremamente elementare, non è agevole per la risoluzione di problemi anche non complessi (la loro risoluzione risulta essere appunto “macchinosa”). Difatti, ne esistono numerose varianti: per esempio la variante multi-nastro, che utilizza più nastri cui possono accedere altrettante testine; quella non deterministica, in cui la transizione ad uno stato successivo non è più univocamente determinata; eccetera. Tali riformulazioni sono rilevanti in pratica, ma in teoria, rispetto alla formulazione originaria, sono equivalenti. Per gli scopi del presente articolo, una trattazione esaustiva di tutte le possibili varianti è inessenziale. È opportuno però rimarcare che esistono anche riduzioni di MT a versioni semplificate, senza che si perda nulla in potere espressivo, e che tali semplificazioni permettono di definire la cosiddetta Macchina di Turing Universale (MTU), che è in grado di simulare qualunque altra MT in input. Infatti è possibile fornire una cosiddetta descrizione linearizzata di una MT, mediante una stringa sull’alfabeto composto dei soli simboli 1 e blank, ed essa permette di definire una nuova macchina che, ricevendo in input tale descrizione, è in grado di simulare il comportamento della MT descritta. In altre parole, il concetto di MTU è riconducibile al concetto di calcolatore in grado di eseguire algoritmi opportunamente codificati. Una MT ha incorporato il programma da eseguire; la MTU, invece, è programmabile. Non a caso, la MTU condivide, con l’architettura di Von Neumann, su cui i calcolatori moderni si basano, il concetto di dispositivo operante su memoria (il nastro) su cui risiedono i programmi.

Il problema della fermata
Al fine di mostrare i limiti della calcolabilità, si considera il seguente problema decisionale noto come problema della fermata — nella teoria della computabilità un problema è decisionale se la sua possibile risoluzione prevede una risposta del tipo sì/no. Informalmente, il problema della fermata è così formulato: “data una Macchina di Turing M e dato un input x, la computazione di M su xM(x), termina in un numero finito di passi?”. La formalizzazione dell’enunciato, insieme alla sua dimostrazione, si deve sempre a Turing [2]. La dimostrazione, di seguito solo schematizzata, si avvale della su menzionata rappresentazione di una MT come sequenza di simboli di un alfabeto, in ragione della quale è lecito usare la sequenza corrispondente a una MT come dato in input a un’altra MT o persino a se stessa (per calcolare cioè MT(cMT)).

Si dimostra per assurdo. Supponiamo che il problema della fermata sia decidibile e cioè che esista una MT H che, ricevuto in input una codifica cM di M, restituisce 1 se la computazione di M termina sull’input x, 0 altrimenti. Se esiste una tale macchina, allora è possibile definire un’altra MT H’ che, ricevuto in input cM, restituisce 1 se la computazione di M termina sull’input cM, 0 altrimenti. Se esiste H’, allora è possibile definire un’altra MT H’’ che, ricevuto in input cM, restituisce 0 se la computazione di M non termina sull’input cM; altrimenti, se M termina la propria computazione, H’’ non termina. Se fornissimo in input alla macchina H’’ la sua propria codifica, cH’’, otterremmo in ogni caso una contraddizione. Infatti, H’’(cH’’) si arresta se e solo se la computazione che essa effettua non termina, e viceversa. Da ciò deriva che H’’ non esiste, da cui deriva immediatamente che neanche H può esistere e quindi che il problema è indecidibile. Si noti che il problema della fermata, pur essendo non decidibile, è semi-decidibile, cioè è possibile rispondere affermativamente circa la terminazione di una MT, ma nulla si può dire sulla sua non terminazione.

Conclusioni. L’indecidibilità del problema della fermata ha un notevole impatto applicativo. Per la tesi di Church-Turing, non essendo il problema risolubile con una Macchina di Turing, esso non può essere risolto con alcun metodo algoritmico. Di conseguenza, non è possibile stabilire, in generale, se un dato programma, scritto in un qualunque linguaggio di programmazione, termina o meno su di un dato input. Il problema della fermata è stato solo il primo di una serie di problemi indecidibili, molti dei quali appartenenti alla teoria della programmazione; per esempio, non è possibile decidere se una data istruzione verrà o meno eseguita almeno una volta nel corpo di un programma, se un dato sottoprogramma verrà o meno invocato in un determinato punto, e così via. Ancor più in generale, non è possibile, matematicamente, essere certi che un dato programma sia o meno privo di difetti, o che esso svolga la funzione per cui è stato creato. Quanto dimostrato da Turing estende il Primo Teorema di Incompletezza di Gödel [4] che già aveva determinato l’impossibilità del programma di Hilbert. Gödel dimostrava che in ogni sistema formale sufficientemente espressivo da contenere l’aritmetica, è possibile costruire formule sintatticamente corrette che non possono però essere dimostrate né confutate all’interno del sistema stesso. Quanto dimostrato da Turing, invece, comporta che non esiste alcun metodo generale capace di affermare se una data formula sia o meno dimostrabile. Con in mente le teorie della relatività ristretta e generale di Einstein, e il principio di indeterminazione di Heisenberg, i risultati teorici raggiunti da Turing, Church e altri, insieme a quelli conseguiti da Gödel pochi anni prima nell’ambito della logica, ricalcano lo zeitgeist della prima parte del Novecento in cui molte delle precedenti convinzioni degli scienziati furono stravolte.

Riferimenti

  1. Y. Vardi: “What is an Algorithm?”. Communications of the ACM, 55(3), p. 5, 2012.
  2. M. Turing: “On Computable Numbers, with an Application to the Entscheidungsproblem”. Proceedings of the London Mathematical Society, (2)42, pp. 230-265, 1936.
  3. Ausiello, F. D’Amore, G. Gambosi: “Linguaggi, Modelli, Complessità”. Franco Angeli, 2011.
  4. Gödel: “Über formal unentscheidbare Sätze der Principia Mathematica und verwandter Systeme I”. Monatshefte für Mathematik und Physik, 38, pp. 173-198, 1931.

Il presente articolo è basato principalmente sul capitolo 5 di [3].

L’algoritmo RSA di crittografia asimmetrica per la sicurezza delle comunicazioni

Il Turing Award, il riconoscimento più prestigioso cui un informatico possa ambire, spesso considerato il premio Nobel dell’informatica, è stato assegnato, dall’Association for Computing Machinery, nel 2015, a Diffie e Hellman. Il loro contributo pionieristico alla crittografia moderna, vale a dire l’idea della crittografia asimmetrica per la sicurezza dei protocolli di comunicazione, del 1976, trova oggi applicazione in svariati contesti critici. L’intuizione di Diffie e Hellman fu effettivamente implementata, l’anno successivo, da Rivest, Shamir e Adleman, nell’algoritmo che da loro prese il nome: RSA. Curiosamente, tale algoritmo valse, ai suoi autori, un precedente Turing Award, quello del 2002.

Rendere segreto il contenuto di messaggi scambiati fra parti comunicanti, al fine di proteggerli da intercettazioni, alterazioni e contraffazioni, è un’esigenza da sempre avvertita. Altrettanto antica è l’adozione di un ben noto meccanismo di sicurezza volto a garantire la protezione da tali minacce: la crittografia. Infatti, uno dei più antichi esempi di sistema crittografico, il cosiddetto cifrario di Cesare, risale all’Antica Roma. L’idea è abbastanza intuitiva: si codifica un messaggio in chiaro, intelligibile da chiunque, in un messaggio cifrato, intelligibile solo dal destinatario cui s’intende destinare il messaggio. Nel caso del cifrario di Cesare, la codifica avviene semplicemente sostituendo ciascuna lettera del testo in chiaro con quella che segue di tre posizioni nell’alfabeto. Così un messaggio come “attaccare gli irriducibili galli alla ora sesta” diventa “dzzdffduh lon nuungafnenon ldoon dood rud vhvzd”. Evidentemente, per risalire al messaggio in chiaro, occorre sostituire ciascuna lettera del messaggio cifrato con quella che, nello stesso alfabeto, precede di tre posizioni.

Come si evince dal su citato esempio, un sistema crittografico è composto di due algoritmi: uno per la cifratura, che cifra il messaggio in chiaro, l’altro per la decifratura, per ripristinare il messaggio originale a partire dalla sua versione crittografata. Il parametro comune a entrambi gli algoritmi, nel caso del cifrario di Cesare il numero 3, prende il nome di chiave e, secondo il cosiddetto principio di Kerckhoffs, è l’unica vera informazione che occorre tenere segreta per garantire la sicurezza della comunicazione.

Il cifrario di Cesare, così come molti altri cifrari sviluppati nei secoli successivi, è un esempio di crittografia simmetrica o a chiave privata: le chiavi di cifratura e decifratura coincidono o, al più, sono l’una direttamente ricavabile dall’altra. La crittografia simmetrica, tuttavia, soffre di una severa limitazione: la conoscenza della chiave dev’essere indispensabilmente condivisa a priori dalle parti comunicanti. Ciò rende necessaria l’instaurazione di contatti fra le parti comunicanti per concordare la chiave da utilizzare; possibilità irrealistica nelle moderne applicazioni basate su Internet, che sono distribuite geograficamente sul Pianeta. Oppure, rende necessario trasmettere la chiave su canali che, nella maggior parte dei casi, sono di per sé inaffidabili. In altre parole, occorre ovviare al problema di come distribuire la chiave in maniera sicura.

L’idea della crittografia asimmetrica
In un articolo apparso su un numero dell’IEEE Transactions on Information Theory del 1976 [1] Diffie e Hellman oppongono, alla crittografia simmetrica classica, un’alternativa geniale: un sistema crittografico asimmetrico o a chiave pubblica. In esso le chiavi di cifratura e decifratura non coincidono più, ma sono diverse (pur costituendo una coppia inscindibile). In questo modo, la chiave di cifratura con cui cifrare i messaggi da inviare a un destinatario viene resa da quest’ultimo pubblica. Invece, la corrispondente chiave di decifratura viene mantenuta dal destinatario segreta e, benché chiunque possa cifrare messaggi con la chiave resa nota, solo il destinatario è effettivamente in grado di decifrarli e quindi leggerli.

Più precisamente, sia E la chiave di cifratura: essa viene resa pubblica, cioè accessibile da chiunque. Sia, invece, D la chiave di decifratura: essa viene mantenuta privata, cioè accessibile solo dal destinatario di eventuali messaggi. Il sistema deve godere delle seguenti tre proprietà:

  • decifrare la forma cifrata di un messaggio M restituisce M. Formalmente, D(E(M)) = M;
  • sia E che D sono facili da calcolare;
  • pur conoscendo E, calcolare D a partire da E è infattibile.

Il punto di forza del sistema crittografico è la terza proprietà. Infatti, se essa è soddisfatta, il rivelare la chiave di cifratura E, dato per scontato che un eventuale utente malevolo sia in grado di intercettare un messaggio cifrato C, consiste solo nel rivelare, a tale utente, un modo computazionalmente inefficiente per calcolare M = D(C). In altre parole, dal punto di vista dell’utente malevolo, la complessità del problema di calcolare D a partire da E deve essere equivalente alla complessità del problema di testare tutti i possibili messaggi Mi fino a trovare quell’unico M tale che E(M) = C.

Il suddetto problema, noto come metodo forza bruta, ha una risoluzione “computazionalmente inefficiente” nel senso che, pur ammattendo esso una soluzione, tale soluzione potrebbe richiedere secoli per essere calcolata, pur disponendo del calcolatore più potente oggi in circolazione. Infatti, il numero di tentativi da eseguire, prima di trovare la combinazione di caratteri corretta, cresce esponenzialmente al crescere della lunghezza in bit del messaggio; per la precisione è funzione di 2n, con n tale lunghezza in bit. Si noti che il concetto di metodo forza bruta è assimilabile al teorema della scimmia instancabile: una scimmia che batte compulsivamente tasti a caso su una tastiera potrebbe teoricamente comporre qualunque opera, compresa la Divina Commedia, ammesso che abbia a disposizione un tempo, che tende a infinito, sufficientemente lungo. Tali problemi appartengono alla classe dei problemi cosiddetti NP-completi; l’informatica teorica ne tratta diversi.

L’algoritmo
Diffie e Hellman, tuttavia, lasciarono il problema di definire un algoritmo che implementasse il nuovo sistema crittografico asimmetrico aperto. La sfida venne raccolta dal mondo accademico e superata, con successo, già l’anno successivo. Nel 1977, infatti, Rivest, Shamir e Adleman brevettarono l’algoritmo che da loro prese poi il nome: RSA; esso fu quindi pubblicato su di un numero di Communications of the ACM l’anno dopo ancora [2]. L’algoritmo di generazione delle chiavi, sia pubblica che privata, è di seguito illustrato:

  • si generino casualmente due numeri primi molto grandi, p q;
  • si calcoli npq (la lunghezza in bit di n definisce la lunghezza in bit della chiave, per esempio 1024 bit nell’attuale standard di sicurezza);
  • si calcoli ϕ(n) = (p– 1) (q – 1) (ϕ è nota come funzione totiente di Eulero);
  • si scelga un numero intero e, 1 < e< ϕ(n), tale da essere coprimo con ϕ(n) (vale a dire che il massimo comune divisore fra e e ϕ(n) è 1);
  • si calcoli d, 1 < d< ϕ(n), tale che ed ≡ 1 mod ϕ(n) (in generale, a ≡ b mod n se a – b restituisce un multiplo di n).

La coppia (ne) costituisce la chiave pubblica; la coppia (nd) la chiave privata. Dato un messaggio M, lo si divide allora in blocchi, per esempio in singoli caratteri, e ogni blocco m lo si rappresenta con un numero intero. Per comporre il testo cifrato, si calcola c = me mod n (cioè è il resto della divisione intera fra me e n). Per ripristinare il testo in chiaro, invece, si calcola m = cd mod n. Si noti che per risalire a d occorre calcolare d ≡ e– 1 mod ϕ(n). Di conseguenza, non basta conoscere n ed e, ma serve conoscere anche il valore di ϕ(n) = (p – 1) (q – 1), che dev’essere tenuto rigorosamente segreto a sua volta. Tuttavia, pur sapendo che n è il prodotto di due numeri primi molto grandi, p e q, quindi un numero molto grande a sua volta, non esiste ad oggi, a dispetto degli sforzi dei matematici, un metodo computazionalmente efficiente per fattorizzare in numeri primi numeri molto grandi, in questo caso n per risalire a p e q: è questa la forza dell’algoritmo. La correttezza formale di tale algoritmo è dimostrabile applicando il piccolo teorema di Fermat e il teorema cinese del resto.

D’altro canto, la cifratura e successiva decifratura dei blocchi in cui dev’essere suddiviso il messaggio da inviare rende l’algoritmo RSA computazionalmente oneroso soprattutto nei casi di trasmissione di grandi quantità di dati. Per ovviare a questo problema, RSA viene spesso utilizzato solo come metodo sicuro per scambiare una chiave segreta da usare poi come chiave di un sistema crittografico simmetrico, di solito meno oneroso. Il problema di come distribuire in maniera sicura una chiave su di un canale intrinsecamente inaffidabile è, dunque, comunque risolto.

In conclusione, la virtuale inattaccabilità dell’algoritmo RSA lo rende una delle soluzioni migliori per proteggere da minacce alla sicurezza numerose applicazioni critiche moderne. Si pensi ad esempio alle transazioni bancarie on-line o al commercio elettronico, di cui quotidianamente facciamo uso. È opportuno notare che, in [2], Rivest, Shamir e Adleman sfruttano la loro idea algoritmica anche per offrire una soluzione al problema delle cosiddette firme digitali. Si tratta di un altro aspetto legato alla sicurezza delle comunicazioni, in particolare all’autenticazione delle parti comunicanti, che tuttavia meriterebbe una discussione a sé. Per l’implementazione di tale soluzione, occorre sfruttare una quarta proprietà, in aggiunta alle tre sopra elencate per caratterizzare un sistema crittografico asimmetrico, che è stata qui omessa.

Infine, è opportuno notare che l’assunzione su cui si basa RSA, vale a dire l’intrattabilità della fattorizzazione in numeri primi, è valida solo per gli algoritmi classici, eseguibili dai calcolatori oggi disponibili. Tuttavia, se si disponesse di un computer quantistico sufficientemente potente, ad oggi ancora mai realizzato, sarebbe possibile eseguire l’algoritmo che Shor, nel 1994, propose per fattorizzare numeri in numeri primi in tempo polinomiale. Tale complessità computazionale rende il suddetto problema trattabile e quindi l’algoritmo RSA e tutte le applicazioni che su di esso si basano inservibili. Questa minaccia ha contribuito ad aprire una nuova frontiera della ricerca che si inquadrerà in quella che già oggi è collettivamente nota come post-quantum cryptography.

Riferimenti

  1. Diffie, M.E. Hellman: “New Directions in Cryptography”. IEEE Transactions on Information Theory, 22(6), pp. 644-654, 1976.
  2. Rivest, A. Shamir, L. Adleman: “A Method for Obtaining Digital Signatures and Public-Key Cryptosystems”. Communications of the ACM, 21(2), pp. 120-126, 1978.

Per ulteriori approfondimenti, in particolare sull’affascinante tematica della NP-completezza di alcuni dei maggiori problemi dell’informatica teorica, si suggerisce la lettura di: M.R. Garey, D.S. Johnson: “Computers and Intractability: A Guide to the Theory of NP-Completeness”. W.H. Freemand and Co., 1979.

Alcune proprietà interessanti delle reti complesse reali

La nostra esperienza ci insegna la validità di numerosi aforismi. Capita spesso di sorprendersi nello scoprire di avere amicizie in comune con qualcuno; tant’è che si è portati a esclamare: “com’è piccolo il mondo!” Similmente, capita di sorprendersi a riflettere su come sia possibile che “i ricchi diventino sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”. Alcuni di questi aforismi, come i due precedenti, assumono spesso, nel folklore popolare, connotazioni di carattere assiomatico. In effetti studi empirici hanno mostrato, da quasi un ventennio a questa parte, che proprietà interessanti emergono in una pletora di scenari reali. (Figura tratta da Wikipedia)

Le reti sono ovunque intorno a noi. Le relazioni di amicizia su Facebook sono una rete. I rapporti di collaborazione stretti nel contesto lavorativo altrettanto. È per definizione una rete Internet e, come conseguenza, il World Wide Web. È una rete quella neuronale, caratterizzata dai collegamenti sinaptici fra neuroni. Noi, come individui biologici, in cui più organi e apparati comunicano fra loro, costituiamo reti. Tali reti sono sistemi complessi, dove per “complessi” s’intende sistemi caratterizzati da molte componenti interagenti fra loro e che evolvono dinamicamente nel tempo. Ciò che rende tali sistemi d’interesse è l’emergenza di proprietà che non sono esibite dalle componenti se considerate singolarmente.

Tradizionalmente, le reti sono oggetto di studio di quella branca della matematica discreta — nata nel XVIII secolo come effetto della ricerca di Eulero — che va sotto il nome di teoria dei grafi. Una rete, infatti, può essere facilmente rappresentata sotto forma di grafo: i nodi del grafo rappresentano le componenti della rete e archi fra i nodi i collegamenti e le associazioni esistenti tra tali componenti. Dato un grafo è possibile esprimere caratteristiche della rete che esso rappresenta mediante vari indici statistici. Per esempio, il cammino minimo medio, cioè il numero minimo medio di nodi che occorre attraversare per raggiungere un nodo a partire da un altro nodo, e il grado di un nodo, cioè il numero di collegamenti che esso ha con altri nodi della rete. Per lungo tempo è stato adottato da fisici e matematici il modello di grafo casuale proposto da Erdös e Rényi [1]: i nodi hanno tutti pari importanza e la probabilità che un nodo sia connesso a un nodo dato è la stessa di essere connesso a un qualunque altro nodo. Tuttavia tale modello, ideale, fallisce nel descrivere il comportamento di reti reali. La crescente disponibilità di dati liberamente fruibili e di strumenti di calcolo sempre più potenti per elaborarli hanno permesso infatti ad alcuni fisici, alla fine del secolo scorso, di misurare vari indici statistici in reti complesse reali. I risultati che essi ottennero furono, a dir poco, inattesi.

Modello di Watts e Strogatz
Lo scrittore ungherese Karinthy, nel 1929, ipotizzò che, in una rete sociale, il numero di conoscenze intermedie a separare due individui qualunque fosse mediamente piccolo. Tale congettura fu sottoposta a prova empirica dallo psicologo americano Milgram nel 1967. Egli progettò il seguente esperimento sociale: ad alcuni abitanti del Nebraska fu chiesto di far recapitare una lettera, priva di un indirizzo preciso, a un destinatario nel Massachusetts, a qualche migliaio di chilometri di distanza. Del destinatario erano resi noti solo nome, cognome e impiego. Nel caso il destinatario fosse direttamente conosciuto, la lettera avrebbe dovuto essergli spedita direttamente; altrimenti essa avrebbe dovuto essere spedita a una persona di conoscenza che “probabilmente” avrebbe potuto conoscere il destinatario, formando in tal modo una catena. Benché furono pochi coloro che effettivamente si prestarono a partecipare all’esperimento, il risultato, inatteso, fu sorprendente. Ci si sarebbe infatti aspettati che il numero di conoscenze medio che separa due individui qualunque fosse alto, invece è 6. In altre parole, secondo questa teoria, ciascuno di noi conosce un amico, che conosce un amico, …, che conosce un amico — per un numero medio di cinque conoscenze intermedie — che conosce il presidente degli Stati Uniti d’America! Tale teoria è nota oggi con il nome di “sei gradi di separazione”, sottendendo che, per quanto noi si possa essere circa 7 miliardi di individui sul Pianeta, i gradi di separazione che dividono due qualunque di noi è molto piccolo, circa 6.

Questa tesi ha trovato ulteriore conferma nello studio condotto da Watts e Strogatz su reti complesse reali, per esempio la rete di collaborazione fra attori ottenuta dall’Internet Movie Database (ogni nodo rappresenta un attore e un arco collega due attori se essi hanno recitato almeno una volta in uno stesso film). In un articolo apparso su Nature nel 1998 [2], i due fisici propongono un nuovo modello volto a catturare la cosiddetta proprietà di “mondo piccolo”, che pare accomunare molte delle reti complesse reali. Il modello è il seguente. Sia L il cammino minimo medio fra due nodi di un grafo e sia C il cosiddetto coefficiente di clustering. Esemplificando nel contesto di una rete sociale, L è il numero medio di amicizie in comune che separano due individui scelti a caso (cioè i gradi di separazione di cui sopra); C è una misura della tipica tendenza sociale degli individui a formare gruppi chiusi, cioè la tendenza di amici a raggrupparsi isolandosi da altri gruppi di amici.

In figura (tratta da [2]) sono illustrati tre tipi di grafo. Il primo più a sinistra è un reticolo regolare, in cui ogni nodo è collegato ai propri vicini e ai vicini dei vicini, per un totale di quattro collegamenti. L’ultimo più a destra, invece, è un grafo casuale secondo il modello ideale di Erdös e Rényi: a partire dal reticolo regolare, esso è costruito in modo tale che ogni arco ha probabilità massima (p = 1) di collegarsi casualmente a un altro nodo della rete. Il reticolo regolare esibisce un alto valore di L e un alto valore di C; il grafo casuale un basso valore di L e un basso valore di C. Entrambi falliscono nel descrivere il comportamento di reti complesse reali, in quanto tali reti sono invece meglio descritte dal grafo nel mezzo (ottenuto per costruzione così come il grafo casuale, ma con probabilità p = 0,5). Per quest’ultimo, infatti, il valore di L è basso, analogamente ai grafi casuali, mentre il valore di C è alto, analogamente ai reticoli regolari. In altre parole, il modello di Watts e Strogatz suggerisce che, nelle reti complesse reali, i nodi tendono ad addensarsi in gruppi (cluster); ciononostante la distanza che separa due nodi qualunque resta comunque bassa. Questo è dovuto alla presenza di alcuni nodi, detti hub, che presentano un grado maggiore rispetto agli altri nodi e, per mezzo dei propri collegamenti, forniscono “scorciatoie”, citando i due autori, nei cammini colleganti altri nodi. Tornando all’esempio della rete sociale, gli hub rappresentano le celebrità.

Modello di Barabási e Albert
Il modello di Watts e Strogatz è stato raffinato da Barabási e Albert, l’anno successivo, in un articolo apparso su Science [3]. Tale modello conferma l’importanza degli hub ma propone due caratteristiche che meglio catturano l’evoluzione di una rete nel tempo. Il modello di Watts e Strogatz, infatti, non tiene conto di due aspetti che invece caratterizzano le reti complesse reali. Da un lato, il numero di nodi di una rete non è fisso ma cambia nel tempo. Dall’altro lato, ciascun nuovo nodo entrante a far parte della rete non ha una stessa probabilità di collegarsi a un nodo piuttosto che a un altro ma, secondo il nuovo modello di Barabási e Albert, esibisce la cosiddetta connettività preferenziale: è più probabile che il nuovo nodo si colleghi a un nodo già molto collegato, anziché a un nodo isolato. Questo nuovo modello tenta di spiegare il comportamento di numerose reti complesse reali analizzate empiricamente, compresa la rete di collaborazione tra attori già considerata in [2]. Sia P(k) la probabilità che un nodo scelto a caso abbia grado, cioè numero di collegamenti, pari a k. Calcolando tale distribuzione di probabilità in reti complesse reali, ci si sarebbe aspettati, secondo il modello classico di Erdös e Rényi, una distribuzione poissoniana (la curva col picco nella figura sottostante): vale a dire una distribuzione in cui gran parte dei nodi si addensa attorno a un determinato valore di grado. Invece, la distribuzione riscontrata segue una legge di potenzaP(k) ~ k– γ, con valore di γ tipicamente 2 < γ < 3 (la curva con alti valori di ordinata in corrispondenza di piccoli valori di ascissa nella stessa figura).

È facile accorgersi dalla figura (tratta da Wikipedia) che, secondo una legge di potenza, la maggior parte dei nodi ha pochi collegamenti, pochi nodi hanno invece molti collegamenti. Questi ultimi nodi sono gli stessi hub che, nel modello di Watts e Strogatz, determinavano la proprietà di “mondo piccolo”. La legge di potenza, anche nota come invarianza di scala, è la stessa distribuzione che tradizionalmente descrive il principio di Pareto sulla distribuzione dei redditi: la cosiddetta legge 80/20. Secondo tale legge, empirica, il 20% della popolazione mondiale detiene l’80% delle ricchezze del Pianeta; il restante 80% della popolazione si spartisce, invece, il restante 20% delle ricchezze. La legge 80/20 trova riscontro in numerosi altri contesti, per esempio il 20% dei rivenditori totalizza l’80% delle vendite, l’80% del tempo di esecuzione di un programma per calcolatore è dovuto al 20% delle istruzioni del programma, e così via. Nelle reti complesse reali, secondo il modello proposto da Barabási e Albert, tale distribuzione di probabilità trova spiegazione proprio nel principio di connettività preferenziale: è molto più probabile che un attore emergente collabori con un attore già celebre; analogamente è molto più probabile che un uomo ricco accumuli sempre più ricchezze, a scapito di un uomo povero.

Concludendo, molti dei sistemi complessi che ci circondano, esprimibili sotto forma di reti e quindi grafi, sono caratterizzati da alcune proprietà interessanti dal punto di vista topologico. Per esempio, la proprietà di “mondo piccolo” e quella di “connettività preferenziale”. Tali proprietà non trovano riscontro nel modello classico, ma sono invece meglio spiegate dai modelli proposti da Watts e Strogatz prima e Barabási e Albert poi sul finire del secolo scorso. Questi studi hanno calamitato l’interesse di ricercatori dai campi più disparati, inclusa l’informatica, tant’è che oggi la cosiddetta complex network analysis è andata configurandosi come un prolifico settore di ricerca multidisciplinare. Al di là delle applicazioni sensazionalistiche, numerosi risultati sono stati ottenuti in vari contesti. Per esempio, nello studio dei meccanismi di diffusione delle epidemie, nei problemi di ottimizzazione dei servizi erogati da reti di telecomunicazioni, nello studio delle interconnessioni neuronali del cervello, e così via.

Ringraziamenti. Desidero ringraziare Eufemia Lella, dottoranda di ricerca in Fisica, per i suoi preziosi suggerimenti.

Riferimenti

  1. Erdös, A. Rényi: “On the evolution of random graphs”. Publ. Math. Inst. Hungar. Acad. Sci., 5, pp. 17-61, 1960.
  2. J. Watts, S.H. Strogatz: “Collective dynamics of ‘small-world’ networks”. Nature,393, pp. 440-442, 1998.
  3. L. Barabási, R. Albert: “Emergence of scaling in random networks”. Science, 286(5439), pp. 509-512, 1999.

Per ulteriori approfondimenti, si suggerisce la lettura di: S. Boccaletti et al.: “Complex networks: structure and dynamics”. Physics Report, 424, pp. 175-308, 2006.

Il sistema “infernale”

Da ragazzino, verso la metà degli anni ’90, quando comete piovevano su Giove, sui libri di scienza campeggiavano rappresentazioni del sistema solare più o meno così:

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I pianeti erano nove e Plutone, con la sua bizzarra orbita eccentrica, che periodicamente lo porta più vicino al Sole di Nettuno, occupava la nona posizione. Scoperto da Clyde Tombaugh nel 1930, il corpo celeste battezzato in onore della divinità a guardia dell’Ade, ha mantenuto lo status di pianeta “solo” per 76 anni, finché nel 2006, a seguito della scoperta di altri oggetti transnettuniani (per esempio Eris), di dimensioni a esso comparabili, se non superiori, fu declassato a pianeta nano.

La “mappa” del sistema solare appare oggi così:

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A popolare i confini del nostro sistema solare, a dispetto della mappa di cui sopra, ritroviamo non solo Eris e la fascia di Kuiper (l’analogo della fascia di asteroidi che si ritrova a distanze molto più vicine al Sole), ma anche altri pianeti nani, ad esempio Sedna e Makemake, dalle orbite ancor più bizzarre, e la nube di Oort, che si ritiene essere la culla delle comete cosiddette di lungo periodo, come la Hale-Bopp.

Sempre negli anni ’90, leggendo il paragrafo dedicato a Plutone, ci saremmo molto probabilmente imbattuti in una rappresentazione del pianeta come un sistema binario. Infatti, l’unico satellite fino ad allora conosciuto, cioè Caronte, dal nome del traghettatore infernale, è talmente grande in proporzione al pianeta (il suo diametro è più della metà di quello di Plutone), tanto da far ricadere il centro di gravità dei due corpi celesti in un punto dello spazio, anziché all’interno di Plutone stesso. Per tutti gli altri pianeti ciò non accade. Inoltre, un ulteriore elemento di unicità lega Plutone e Caronte: il loro moto di rotazione è sincronizzato in maniera tale che Caronte mostra sempre la stessa faccia a Plutone, così come accade per la Luna nei confronti della Terra, ma anche Plutone mostra sempre la stessa faccia a Caronte.

Il presunto sistema binario ha cessato di essere tale un decennio fa. Dal 2005, infatti, si sono succedete le scoperte di ben altri quattro satelliti naturali di Plutone: Notte, Idra, Cerbero e Stige, tutti dai nomi non proprio “angelici”. Oggi, il sistema Plutone appare infatti così:

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Le nostre conoscenze su Plutone, fino a qualche mese fa limitate alle sole osservazioni astronomiche e a calcoli matematici, si sono infatti arricchite da quando la sonda New Horizons, lanciata nel 2006 con il preciso compito di sorvolare il pianeta, lo ha finalmente raggiunto proprio nel luglio di quest’anno. Ci sono voluti 9 anni, alla velocità di circa 16 km/s, per raggiungere l’agognata meta. Fra le scoperte più sensazionali della missione: la presenza di ghiaccio d’acqua sulla superficie del pianeta e, come testimonia l’immagine sottostante, il cielo blu.

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Per concludere, alcune curiosità:

  • Clyde Tombaugh scoprì l’esistenza di Plutone, nel 1930, alternando velocemente due lastre fotografiche e riconoscendo lo spostamento di un corpo celeste fra le stelle.
  • In realtà, l’esistenza di Plutone avrebbe potuto essere dedotta già a partire da lastre fotografiche scattate nel 1915.
  • Tombaugh e colleghi credettero inizialmente di aver finalmente individuato il fantomatico Pianeta X: il pianeta la cui presunta esistenza avrebbe spiegato le anomalie nel moto perturbato di Urano e Nettuno. La Voyager 2 avrebbe poi rivelato l’inesistenza di tali anomalie, benché Plutone, così come numerosi oggetti appunto transnettuniani, effettivamente si trova oltre l’orbita di Nettuno.
  • Il periodo di rivoluzione plutoniano dura 248 anni. Dunque, dalla sua scoperta, è trascorsa poco più che una “stagione”.
  • La superficie di Plutone è quasi completamente priva di crateri: il pianeta è molto più giovane di quanto ci si sarebbe aspettati.
  • La New Horizons trasporta parte delle ceneri di Tombaugh, più un francobollo del 1991 recante la scritta “Pluto not yet explored”.
  • Benché la sonda abbia raggiunto Plutone a luglio, immagini nitide ci pervengono solo ora per via della sua ridotta capacità trasmissiva (pochi Kbit al secondo).
  • La missione proseguirà con lo studio di alcuni oggetti della fascia di Kuiper per poi seguire la scia delle due Voyager, che da anni viaggiano ormai verso i limiti estremi del nostro sistema solare.

Amsterdam: alcuni piccoli utili consigli di viaggio…

amsterdamChe Amsterdam sia una città più da vivere che da visitare (nel senso stretto del termine) è un fatto risaputo. Il perché è presto detto: checché se ne dica la capitale olandese è davvero la città dei balocchi, la sin city per eccellenza; ciò non toglie però che la città sia priva di quel fascino tipicamente monumentale e magnificente che un turista si aspetterebbe invece di trovare in città più blasonate (due nomi a caso, Roma e Parigi), e la sua visita potrebbe addirittura lasciare il turista un pochettino più esigente un po’ deluso.
Il colpo d’occhio di Amsterdam sono le sue caratteristiche casette “storte” (strette e alte, e sporgenti sulla strada per facilitare traslochi, altrimenti impossibili, coi paranchi che si vedono sporgere dai tetti) che si affacciano su canali che come cerchi concentrici tagliano cinque volte il centro storico della città. Il paesaggio, tuttavia, è abbastanza monotono e uguale a se stesso – salvo qualche edificio più imponente che svetta qua e là – il che rende Amsterdam una meta di sicuro pittoresca e curiosa ma, come detto, nulla più. A meno che certo non siate consumatori abituali di Ganja, poiché in tal caso non ve ne vorreste più tornare.

Luoghi assolutamente da non perdere:

  • Piazza Dam: la piazza principale della città su cui sorgono gli edifici più importanti: il Palazzo Reale, la Chiesa Nuova e il Museo delle cere Madame Tussaud’s. Si arriva alla piazza praticamente da ogni dove, quindi pur imboccando una direzione errata state pur sicuri che magicamente vi ritrovereste lì;
  • Red Light District: il rinomato quartiere a luci rosse di Amsterdam, famoso in tutto il mondo. Vi si concentra la maggior parte dei coffee shop, tra i quali il celebre Bulldog e l’Abraxas, e le vetrine delle prostitute che ammiccanti invitano i passanti a beneficiare dei loro servigi. Il quartiere in realtà offre una vista avvincente anche di giorno, specie se si considera che al suo interno vi sorge l’antica Chiesa Vecchia in stile gotico;
  • Museumplein: il quartiere museale, imperdibile per tutti gli appassionati di arte. Vi si trovano i tre musei principali della città: il Rijksmuseum, lo Stedelijk Museum e il Van Gogh Museum, in cui si riunisce la quasi totalità delle opere del celebre pittore olandese;
  • la casa di Anna Frank: il luogo in cui la famiglia Frank si nascose dalla persecuzione nazista durante la Seconda Guerra Mondiale. Il rifugio fu scoperto a pochi mesi dalla fine della guerra e per la famiglia non ci fu più speranza, salvo per il capo-famiglia Otto Frank che avrebbe poi reso pubblico il diario di sua figlia;
  • Leidseplein: la seconda piazza in ordine d’importanza, nonché centro nevralgico del quartiere dello shopping di Amsterdam. Non mancano, infatti, nelle zone limitrofe, negozi, bar, hotel, cinema e teatri;
  • Nieuwmarkt: è la piazza su cui sorge il De Waag, l’antica porta medievale di accesso alla città, oggi sede dell’omonimo ristorante;
  • Nemo: la città della scienza. L’avveniristico palazzo che la ospita, opera del celebre architetto italiano Renzo Piano, assomiglia ad una nave pronta a salpare (nda, o ad affondare).

Alcuni consigli utili:

  • la marijuana è solo tollerata in Olanda, non legale; il che implica che sia possibile portarsi addosso non più di 30 grammi, mentre è possibile ordinare nei coffee shop non più di 5 grammi;
  • la prostituzione è perfettamente legale in Olanda, quindi le prostitute sono a tutti gli effetti libere professioniste. Ciò non significa però che non esista un giro clandestino di “protezione”, quindi guai anche solo scattar loro una foto!
  • Amsterdam è davvero la città delle bici… le bici hanno precedenza su tutto, persino sulle auto (che, anzi, nel centro storico scarseggiano) e il pedone è considerato l’ultima ruota del carro. I semafori pedonali, infatti, scattano solo su richiesta e durano una manciata di secondi (roba che una nonnina sarebbe spacciata ad ogni incrocio). Attenti poi a non invadere le piste ciclabili (a volte quasi indistinguibili rispetto a pavimenti stradali completamente marroni), pena l’immancabile scampanellio (e magari la bestemmia) dello sfrecciante ciclista di turno;
  • tre cose sono certe ad Amsterdam: “piove, ha piovuto e pioverà”. Il clima è oltre modo umido e la pioggia, anche se magari fine, è quasi ininterrotta. Quindi, premunitevi di ombrello e di giacche pesanti (anche Maggio, non certo l’inverno, presenta temperature che per noi italiani sarebbero inimmaginabili in primavera);
  • contrariamente a quanto si dica, Amsterdam non è piccola. E’ vero che il centro storico non è eccezionalmente esteso ed è facile ricapitare negli stessi luoghi, ma, a dispetto di quanto possa sembrare dalla cartina, le distanze sono tutt’altro che corte;
  • la città è cara. Pernottamenti anche in squallide bettole hanno prezzi ben oltre gli standard europei e anche i pasti nei locali esibiscono prezzi in taluni casi inavvicinabili. Ragion per cui si consiglia fortemente di prenotare in largo anticipo, magari un appartamento, e approfittare dei tanti supermercati sparsi qua e là per fare rifornimento di viveri;
  • gli olandesi parlano indifferentemente l’olandese e l’inglese (persino le trasmissioni televisive presentano questa ambivalenza) e, tra l’altro, essi ne vanno particolarmente fieri. Ergo, non preoccupatevi di imparare a formulare anche semplici banalità in olandese (assolutamente ostico, almeno a titolo personale), se masticate già un minimo l’inglese;
  • nella città del peccato è tuttavia severamente vietato bere alcolici per strada, fare schiamazzi all’aperto ed è malvisto presentarsi in un locale pubblico (esclusi ovviamente i coffee shop) sotto l’effetto di alcol o droga. Le strade, a dispetto della massiccia presenza di turisti, sono innaturalmente silenziose, e quindi il consiglio è quello di evitare di farsi notare troppo quando si è in giro.

In definitiva, una meta quasi obbligata per chi ha sete di conoscenza di stili di vita alternativi al nostro. In verità, come accade d’altronde per tutte le altre capitali del mondo, la città non è reale specchio della tranquilla e pastorale abitudinarietà delle zone limitrofe, dell’Olanda dei tulipani, dei pascoli, dei mulini a vento e delle villette a schiera dove ogni buon padrone di casa che si rispetti cura il proprio orticello senza invadere i confini del vicino. Se arrivate ad Amsterdam in treno ve ne accorgerete.

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One-Day-Trip a Madrid

Cominciamo con lo sfatare un mito. E’ vero che Madrid non possiede monumenti di “monumentale” magnificenza che altre mete più blasonate, come Roma col suo Colosseo, Parigi con la sua Torre Eiffel e Londra col suo Big Ben, possono vantare, ma indubbiamente possiede un’architettura (anche quella semplicemente residenziale), barocca, artistica e suggestiva, vie, piazze, parchi e, soprattutto musei, che hanno comunque davvero poco da invidiare. Così come, inoltre, pur trattandosi di una città relativamente “giovane” (la storia di Madrid, sebbene la presenza dell’uomo nella regione sia documentata già in età preistorica, risale al IX secolo, quando sorse il primo nucleo urbano, e conobbe la sua fioritura solo a partire dal XV secolo, sotto il regno di Isabella d’Aragona e Ferdinando di Castiglia), ragion per cui non si respira l’aria di antico che ritroveremmo invece per le vie romane, custodisce comunque un indubbio fascino storico e culturale che riguarda, in special modo, un po’ tutte le maggiori personalità spagnole tra cui, ad esempio, Goya e Velazquez (giusto per citarne due).

Ma veniamo alla tesi di fondo dell’articolo. Madrid, pur essendo la città più grande della Spagna, nonché il terzo comune più popoloso d’Europa, ha un centro storico di relativamente modeste dimensioni che, armandosi di buona lena, senza dimenticare l’efficiente e capillare metropolitana, si presta perfettamente ad essere visitata a piedi, anche solo nell’arco di una giornata.

Attrazioni imperdibili e più facilmente raggiungibili tra loro, data la loro vicinanza, avendo a disposizione un unico giorno, sono:

  1. Puerta del Sol: è indubbiamente la piazza più rappresentativa di Madrid e la piazza notturna per eccellenza. Da qui prende, infatti, avvio, per poi diffondersi nelle aree limitrofe, la celebre movida madrilena. Puerta del Sol è circondata da alcuni simboli tipicamente associati alla città: l’insegna luminosa Tio Pepe, icona commerciale di una qualità di sherry locale, il Palazzo delle Poste, con l’Orologio Nazionale, la statua equestre di Carlo III e la statua dell’Orso e il Corbezzolo, simbolo di Madrid presente anche sulla sua bandiera;
  2. Plaza Mayor: è la piazza più grande della città. Si tratta di un ampio spazio porticato a pianta rettangolare che dispone di ben nove porte d’accesso, delle quali la più conosciuta è l’Arco de Cuchilleros, nel cui centro sorge la statua equestre di Filippo III, dono del Gran Duca di Toscana. Plaza Mayor è oggi sede del principale mercato cittadino, il celebre Mercado de San Miguel, sito alle sue spalle, ma anche palcoscenico di numerosi eventi civili tra cui festival e concerti;
  3. Plaza de Santa Ana: famosa per le sue birrerie (nelle quali a suo tempo bazzicava persino Hemingway), ospita le statue dedicate al drammaturgo Pedro Calderon e al poeta Federico Garcia Lorca, oltre che il celebre Teatro Espanol e il lussuoso Hotel Reina Victoria, dov’erano soliti alloggiare i toreri prima della corrida;
  4. Plaza de Oriente: con al centro la statua equestre dedicata a Filippo IV;
  5. Plaza de l’Armeria: vi sorgono esattamente uno di fronte all’altro i due edifici più grandi di Madrid: il Palazzo Reale, residenza ufficiale dei monarchi spagnoli, costruito ispirandosi al Louvre in stile tardo barocco italiano, e la Cattedrale de l’Almudena, chieda madre dell’arcidiocesi di Madrid;
  6. Plaza de Espana: in essa vi sorge il monumento dedicato a Cervantes nonché le statue dedicate alla sue maggiori creazioni, vale a dire Don Chisciotte e Sancho Panza;
  7. Tempio Debod: antico complesso monumentale egizio regalato alla Spagna dall’Egitto come ricompensa per l’aiuto spagnolo in risposta all’appello internazionale dell’UNESCO per salvare i templi della Nubia, messi in pericolo dalla costruzione della diga di Assuan;
  8. Gran Via: è una strada lunga un chilometro e mezzo che taglia in due la città. Fu progettata alla fine del ‘800 e cominciata a costruire a partire dal 1910, in piena Belle Epoque, quando Madrid era capitale mondana, elegante e raffinata. La Gran Via conserva ancora oggi, con le sue decine di teatri, cinema e bar, il fascino retrò e decadente che ne fece, negli anni ’50 e ’60, la Broadway di Madrid. Vi sorgono una serie di edifici monumentali, tra cui l’Edificio Metropolis, e culmina nella celebre Plaza de Cibeles;
  9. Plaza de Cibeles: la piazza ha una pianta circolare, cosa che la fa somigliare più ad una grande rotonda che ad una piazza propriamente detta. Essa deve il suo nome alla Fuente de Cibeles, la fontana omonima dedicata alla dea greca Cibele rappresentata su di un carro trainato da leoni. Attorno alla piazza sorgono poi alcuni degli edifici più importanti di Madrid come il Banco de Espana, il Palacio de Buenavista, il Palacio de Linares e il Palacio de Comunicaciones;
  10. Puerta de Alcalà: distante non più di 500 metri da Plaza de Cibeles, è una sorta di arco trionfale che segna il limite orientale del centro storico;
  11. Paseo del Prado: uno dei boulevard più importanti di Madrid, è la cosiddetta “strada dell’arte”. Lungo di essa è possibile ammirare la Fuente de Neptuno, la fontana dedicata a Nettuno, gemella della vicina Fuente de Cibeles, e da essa è possibile raggiungere i tre musei più importanti della città: il Prado, il Reina Sofia e il Thyssen-Bornemisza (dei quali, almeno in un itinerario di un unico giorno, potrebbe rivelarsi necessaria, benché drammatica, la scelta della visita di uno solo dei tre; e a tal riguardo, noi sentiamo di suggerire, per il suo sapore tipicamente moderno, il Reina Sofia);
  12. Museo del Prado: uno dei maggiori musei al mondo, ospita una serie di capolavori tra cui le principali opere di Francisco Goya;
  13. Museo Nazionale Reina Sofia: è dedicato interamente alla pittura del  ‘900 ed espone la celebre Guernica di Picasso oltre che alcuni fra i maggiori capolavori di Salvador Dalì;
  14. Museo Thyssen-Bornemisza: custodisce circa 800 opere che spaziano dal Rinascimento italiano all’Arte Moderna;
  15. Parco del Retiro: sicuramente uno dei più bei parchi d’Europa, talmente grande da costituire quasi una città a sé. E’ uno dei principali luoghi d’interesse e ritrovo della capitale e al suo interno sorgono: il Palazzo di Cristallo, il Palazzo di Velazquez, il Bosco degli Scomparsi, commemorativo degli attentati terroristici del 2004 e, per finire, il Monumento ad Alfonso XII, un complesso scultoreo sulle rive di un laghetto.

Una visita di un solo giorno, tuttavia, non può comprendere alcune attrazioni che, data la loro distanza dal centro, richiederebbero spostamenti che sottrarrebbero troppo del già poco tempo prezioso a disposizione. Fra esse è opportuno citare:

  • Porta d’Europa: due grattacieli inclinati di 15° l’uno rispetto all’altro, le cosiddette Torri Kio, che fanno da sfondo al monumento dedicato a José Sotelo, il politico spagnolo il cui assassinio scatenò la Guerra Civile Spagnola degli anni ’30;
  • Santiago Bernabeu: lo stadio di casa del Real Madrid, con all’interno un museo dedicato alla storia della squadra;
  • Toledo: cittadina in provincia di Madrid, sita 70 Km a Sud della capitale, patrimonio dell’UNESCO;
  • Plaza de Toros: l’arena in cui si tengono gli spettacoli di corrida famosi in tutto il mondo;
  • Monastero dell’Escorial: ennesimo patrimonio dell’UNESCO, situato nel comune di San Lorenzo, 50 Km a Nord-Ovest del centro cittadino;
  • Parco Divertimenti Warner: parco a tema ispirato alla Warner Bros che, data la sua grandezza, rivaleggia col ben più noto Eurodisney di Parigi. Si trova a 25 Km da Madrid in direzione Sud.

Alcune considerazioni e suggerimenti per il viaggio!

  • Madrid è davvero la capitale della movida. Il sabato sera è un tripudio di gioventù (ma non solo) che inscenano un vero e proprio botellon di proporzioni cittadine. Ovunque si aggirano ragazzi accortamente muniti di alcol e smaniosi di fare il loro ingresso nelle varie discoteche e locali sparsi nel bel mezzo delle principali strade madrilene, con buona pace dei netturbini…
  • Malgrado l’incredibile afflusso di gente, che fa rassomigliare le 3 di notte alle nostre ore di punta giornaliere, la città è sicurissima e non c’è via o angolo che non sia vigilata da pattuglie di polizia.
  • Tuttavia, l’immenso dispiegamento di forze non può contrastare l’ormai tristemente diffuso fenomeno del borseggio, che si concentra soprattutto nell’area metropolitana da e verso l’Aeroporto. Attenzione, quindi, al portafogli! Il mio, ahimè, ne sa qualcosa…
  • L’Aeroporto Barajas è il più grande d’Europa. Possiede ben 4 Terminal ed è facilissimo perdersi al suo interno. Fortuna, però, vuole che si trovi a poco più di soli 10 Km dal centro cittadino e che ad esso corrisponda persino una fermata della Metro (al Terminal 2), cosa che consente ai visitatori di spostarsi agevolmente e di evitare le solite trafile per taxi e autobus che invece rappresentano il dramma delle visite a città simili.
  • Il prezzo del biglietto per una corsa sulla Metropolitana è variabile in base alla distanza che si ha intenzione di percorrere. Va da un minimo di 1,50 €, anche solo per raggiungere la fermata successiva (nel qual caso converrebbe farsela a piedi), fino ad un massimo di 5 € per raggiungere l’Aeroporto dal centro della città.
  • Le abitudini degli spagnoli sono traslate di almeno un paio d’ore avanti rispetto a noi. I negozi cominciano ad aprire solo verso le 10, non si pranza mai prima delle 15 e non si esce la sera prima delle 23.
  • La cucina spagnola è davvero squisita e anche abbastanza economica. Da non perdere pinchos, tapas e l’immancabile cerveza.
  • Gli spagnoli non spiccicano una parola d’inglese. E’ preferibile parlare con loro in italiano in quanto, essendo entrambe lingue neo-latine, è molto più facile che vi capiscano. D’altronde, anche per noi non è impossibile riuscire comunque a capire loro.
  • In definitiva, Madrid non è una città che vi lascerà di stucco o a bocca aperta, e magari non è nemmeno la città più bella della Spagna (anzi, a detta degli spagnoli stessi tale primato spetterebbe invece a Siviglia), ma trasmette ugualmente un innegabile fascino che val la pena essere vissuto, anche solo per un giorno.

(Da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso: il Palazzo Reale visto dai Giardini, Plaza Mayor, il Tempio Debod, Plaza de Cibeles con vista sulla Gran Via, Cattedrale de l’Almudena, Statue di Don Chisciotte e Sancho Panza, Puerta del Sol)

Polignano a Mare, piccolo gioiello della provincia di Bari

(Da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso, escludendo i due scorci cittadini centrali: il Monumento ai Caduti, la Statua di Domenico Modugno, il Ponte della Via Traiana, Lama Monachile, l’Arco Marchesale, la Chiesa Matrice)

Polignano a Mare è una suggestiva e pittoresca cittadina sita a Sud del capoluogo pugliese che sorge su una serie di speroni di roccia praticamente a strapiombo sul mare. Il comune offre un paesaggio imperdibile sia dal punto di vista naturalistico, per via delle grotte e delle insenature ricavate dalla secolare azione erosiva delle onde marine, sia dal punto di vista culturale, data la presenza di un borgo storico che risale fin all’epoca degli antichi romani.

Principali attrazioni per il curioso turista sono:

  • il litorale: premiato ininterrottamente dal 2008 con la Bandiera Blu per la pulizia delle acque e la qualità dei servizi offerti, il litorale polignanese, con il suo mare cristallino e le grotte di rara bellezza, è senza dubbio il vero elemento catalizzatore del turismo della città;
  • il ponte della Via Traiana, tuttora percorribile, collega i due versanti di Lama Monachile;
  • l’Arco Marchesale: è l’unica via d’accesso, un tempo dotata di ponte levatoio, al centro storico. Le pittoresche stradine del borgo antico conducono, dopo poche decine di metri, alle celebri “balconate”, che offrono panorami mozzafiato e vertiginosi della scogliera polignanese;
  • Chiesa Matrice: dotata di un massiccio campanile a forma quadrangolare, è l’edificio che più di tutti risalta agli occhi del visitatore;
  • il Palazzo dell’Orologio, un tempo sede degli uffici municipali, sorge accanto alla Chiesa Matrice;
  • la statua dedicata a Domenico Modugno, l’indimenticato maestro della musica italiana, nato proprio a Polignano;
  • la vicina Abbazia dei Benedettini (vedi foto in basso): il monumentale complesso monastico che sorge sulle rive del mare di San Vito, la piccola frazione della città sita 3 Km più a Nord.

Polignano merita davvero una visita, anche se breve. Tralasciando l’idea di potervi dedicare un giorno intero soprattutto di mare (imperdibile se ci si trova a passarvi d’estate), la visita della città non porta via più di mezza giornata (quanto basta anche per gustarsi la tipica cucina mediterranea pugliese, invidiata da tutto il mondo) e può benissimo rientrare in un itinerario più ampio che magari contempli le altre principali località turistiche della regione come Trani, Alberobello e Ostuni.

Ostuni, la Città Bianca

“I vip la corteggiano, i turisti la prediligono per trend, mare e movida notturna”

(Da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso: panorama del litorale visto da Viale Oronzo Quaranta, il rosone della Cattedrale, Palazzo San Francesco, la Guglia di Sant’Oronzo, vista della città da lontano, la monofora della Chiesa di San Giacomo di Compostela, Arco Scoppa, Chiesa di San Vito Martire)

Ostuni è il primo comune pugliese che si incontra scendendo verso il Salento. Sorge nella provincia di Brindisi in cima ad uno di tre colli ad un’altezza di 200 m dal livello del mare e dista 8 km dalla vicina costa adriatica.
La sua economia, un tempo sorretta dalla sola agricoltura (vedi uliveti e vigneti), oggi gode dei floridi apporti del turismo grazie soprattutto al centro storico, un tempo completamente, oggi solo parzialmente, intonacato a calce, cosa che ha fatto guadagnare ad Ostuni il soprannome di “Città Bianca“, e, ovviamente, al litorale adriatico, visto l’imbarazzo della scelta fra le rinomate località di Rosa Marina, Villanova e Costa Merlata, giusto per citarne tre, che, grazie alla bontà dei servizi offerti, ha conquistato per la quinta volta di fila la Bandiera Blu e, quest’anno, anche il prestigioso riconoscimento delle Cinque Vele conferito da Legambiente.

Un potenziale itinerario turistico nel cuore del borgo antico di Ostuni non può non comprendere:

  • Porta Nova e la cinta muraria: delle porte che un tempo si aprivano lungo le mura difensive per sottoporre al vaglio chi chiedesse di entrare in città, ne restano oggi solo due: Porta Nova, quella principale, sita in cima ad una salita ripidissima, e Porta San Demetrio, che conduceva, un tempo, all’omonima chiesa oggi non più esistente. Attraverso quest’ultima ci si ritrova, poi, su Viale Oronzo Quaranta, il percorso perimetrale all’antica cinta muraria, costellata di esattamente quaranta lampioni che, illuminandosi la sera, donano alla città una visione da lontano che ricorda vagamente una torta con le candeline;
  • la Chiesa di Santa Maria della Stella: si affaccia sulla cinta muraria e domina la vista della marina ostunese;
  • la Chiesa di San Giacomo di Compostela: seconda solo alla cattedrale, la chiesa è nota per la sua monofora, una finestra sormontata da un arco, anch’essa affacciata su Viale Oronzo Quaranta;
  • la Cattedrale: edificata nel XV secolo in pieno stile gotico-romanico e in piena epoca sveva, è il principale luogo di culto ostunese. Ad impreziosirne la facciata, sopra ad ogni altra cosa, è il rosone, uno dei più grandi al mondo, al cui centro è raffigurato Gesù Cristo che sorregge con la mano sinistra il globo;
  • la Chiesa di San Vito Martire: uno dei più riusciti esempi di rococò pugliese, oggi adibita a Museo Civico;
  • il Palazzo Vescovile: sito in cima alla città vecchia, un tempo un vero e proprio castello;
  • Piazza Libertà: è la piazza principale della città, risalente al Risorgimento. Attorno alla piazza, vero cuore della vita cittadina, sorgono: Palazzo San Francesco, sede del Comune, l’omonima Chiesa, nel cui giardinetto alle spalle è presente una piccola statua del santo di Assisi, e la celebre Guglia di Sant’Oronzo, un imponente obelisco che celebra il culto del santo, patrono di Ostuni.

Tradizione vuole che gli abitanti del centro storico, muniti di pennello e secchiello, diano annualmente una riverniciata di bianco alle pareti delle proprie proprietà onde preservarne l’aspetto caratteristico. Tuttavia, l’avvento dei turisti e soprattutto dei vip, smaniosi di acquistare una casetta e un pezzettino di terra all’interno della città, ha fatto sì che l’usanza andasse persa col passare degli anni e che l’attuale “Città Bianca” oggi lo sia solo parzialmente.
Questo fatto, cui si aggiunge lo stato di abbandono in cui versano alcune costruzioni extra-murarie, vedi la rinomata Fabbrica di Tabacco, benché Ostuni si sia candidata a divenire Patrimonio dell’Umanità, a conti fatti costituisce il vero deterrente che le impedisce di diventarlo per davvero.

Una Domenica sera ai Trulli di Alberobello, patrimonio dell’UNESCO

…ad Alberobello il paesaggio strano sparso di trulli. Una specie di attendamento lapideo. I padiglioni conici di pietra, col fiore in cima. I trulli bruni e bianchi. I gruppi di coni. Paese remoto come un sogno, e come un’antica età. Penso a un’abitazione fatta di sette trulli, con l’interno dorato, con le pareti di lapislazzuli, con i pavimenti coperti di tappeti arabi. Nella stanchezza mi addormento. Mi sveglio e vedo un paese di sogno, come se dormissi tuttavia. L’attendamento di pietra nel terreno ondulato. La città bianca che s’inazzurra nella sera…” (Gabriele D’Annunzio)

(Da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso: uno scorcio di Rione Monti, il Trullo Sovrano, la Basilica di Cosma e Damiano, i trulli al tramonto, la Chiesa di Sant’Antonio, il Trullo Siamese)

Nel cuore della Valle d’Itria, bellissima porzione del territorio della Puglia centrale, si trova la località di Alberobello, in provincia di Bari. Il suo nome deriva da sylva aut nemus arboris belli, ossia “selva dell’albero della guerra”.
Ciò che rende unica e inimitabile tale cittadina è la presenza dei cosiddetti trulli, parola derivante dal greco trullos, che significa “cupola”. Tale termine è piuttosto recente e sicuramente ha una derivazione dotta o scientifica.
Il termine con cui venivano chiamate queste costruzioni a secco, invece, era semplicemente casedda, letteralmente “piccola casa”. E di questo si tratta in realtà, ossia di una modesta ma confortevole abitazione costruita utilizzando sagacemente la materia prima più abbondante in questo territorio: la pietra calcarea.
La storia di questa originale cittadina, infatti, risale alla seconda metà del XVII sec., quando i conti di Conversano, feudatari del posto, autorizzarono i contadini a costruire un nuovo villaggio con abitazioni costruite a secco senza utilizzo di malta, in maniera da poterle subito demolire in caso di ispezione regia, per evitare il pagamento del tributo per la costruzione di nuovi centri abitati imposto allora dal Regno di Napoli.

Giunti nella località al tramonto, il tour inizia dal Belvedere Santa Lucia, in piazza San Girolamo, il posto ideale per ammirare, in tutto il suo splendore, la magica e pittoresca zona monumentale dei trulli dall’alto.
Scendendo per la scalinata del Palazzo Marchesale, che costeggia il Belvedere, dove troviamo anche la Chiesa di Santa Lucia, giungiamo in Largo Martellotta, l’ampio e centralissimo stradone che separa le due dolci zone del paese: la parte nuova esposta a sud-est, con il Rione Aia Piccola, e la zona monumentale vera e propria, coincidente con Rione Monti.
Decidiamo di percorrere una delle sette stradine artistiche che confluiscono alla sommità del colle, piene di negozietti che vendono souvenir, laddove domina la Chiesa di Sant’Antonio, anch’essa con la tipica configurazione a trullo, piccola e deliziosa.
Sempre nello stesso rione è possibile ammirare  il Trullo Siamese, composto di due coni che si amplettano. La storia dell’origine di questo trullo è particolare: ereditato dal padre, due fratelli l’abitarono finché giunsero ad odiarsi per una fanciulla, che aveva promesso il suo amore al maggiore, benché amasse il minore. Tuttavia, appena l’intrigo amoroso fu scoperto, tra i due fratelli la convivenza diventò litigiosa al punto che, per volontà di entrambi, l’edificio venne diviso da una parete e ciascuno ne ebbe una metà.
Scendiamo nuovamente su Largo Martellotta per arrivare, questa volta, a Piazza del Popolo, sede del Palazzo Municipale, al cui centro si erge il Monumento ai Caduti della prima guerra mondiale. Sulle quattro lapidi di marmo, poste alla base dell’obelisco, sono elencati i nomi dei caduti e le parole dell’allora Sindaco.
Qui troviamo anche la Casa D’Amore, chiamata così per via del nome del suo proprietario, Francesco D’Amore, simbolo della vittoria degli alberobellesi sul divieto imposto dai Conti di Conversano di non usare la malta né di apportare modifiche ai trulli. Infatti, durante la sua costruzione si fece uso, per la prima volta, di materiali quali la calce e il bolo. Di solito questa casa ospita mostre gratuite, come quelle di tre artisti, l’uno new-yorkese, l’altro francese e l’ultimo tedesco, da noi visitate.
Attraversando Corso Vittorio Emanuele si arriva alla Basilica di Cosma e Damiano, luogo di pellegrinaggio progettato dall’architetto Curri, che ricorda Trinità dei Monti. Il tema visivo prevalente della costruzione è il neoclassicismo, con la sua facciata scandita da lunghe lesene e da colonne scanalate con capitelli corinzi, e da due colonne lisce romane con capitelli di stile composito.
Il portale è ornato dalle quattro virtù morali, mentre i medaglioni simboleggiano le virtù teologali: cinque volti di uomini guardano cinque volti di donne. In posizione eretta sono raffigurati Matteo, Luca, Isaia e Geremia a sinistra, e Marco, Giovanni, Ezechiele e Daniele a destra. Nella lunetta del portico, infine, c’è Gesù crocifisso, fra Maria, San Giovanni, i santi Pietro e Paolo, e, ovviamente, Cosma e Damiano.
Alle spalle della Basilica, più a Nord, troviamo il Trullo Sovrano, che rappresenta il più avanzato esempio di trullo disposto su due piani. La maestosa cupola conica si erge imponente al centro di un gruppo costituito da dodici coni. L’opera appartiene ad un anonimo costruttore, la cui genialità si ravvisa nella realizzazione della scala di accesso al piano superiore, incassata nello spessore del muro, sicura, comoda, né ingombrante e né invisibile.
Tra l’Aia piccola e Piazza del Popolo sorge, infine, il grande complesso di 15 trulli contigui e comunicanti, oggi adibiti a Museo del Territorio, con testimonianze della Murgia dei Trulli, i più antichi dei quali risalgono al XVIII secolo. Tale complesso abitativo è chiamato oggi Casa Pezzola dal nome degli ultimi proprietari.